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Terza persona (Percorsi paralleli)

Franco Arminio


...
Non voglio farla parlare dell’ansia, so che un po’ ci gode, e nel suo stato non mi sembra decente. Mi parli delle donne.
Ne ho trovata una, ne ho inseguite tante.
Le inseguivi, perché?
Noi nasciamo congedandoci da una donna, forse è un congedo definitivo.
Perché le donne non la inseguivano?
È vero, anche quelle a cui piacevo non mi hanno mai inseguito. Forse era tutto legato alla mia impazienza. Io andavo verso di loro prima che loro venissero verso di me.
Però non mi ha detto cosa pensa delle donne?
Io le cercavo per capire se mi interessavano veramente. Per me le donne, come la letteratura erano un possibile strumento di conoscenza. In un certo senso mi sentivo al di fuori delle tradizionali traiettorie del desiderio. Comunque le donne mi deludevano più o meno come gli uomini. Se ci penso, ancora adesso mi viene da piangere. Giornate intere a pensare, a parlare, poi alla fine restavo sempre fuori, fuori dalla vita, incapace di entrarvi anche per un solo attimo. Le donne in genere si muovevano su una logica rigida, ti voglio o non ti voglio. Per me era sempre tutto un esperimento. Ogni secondo è un esperimento, il fatto stesso di arrivare al secondo successivo è una semplice probabilità. Volevo stare tra esseri che sentivano queste cose, invece mi trovavo roba vecchia, sentimenti logori e un po’ facili.
Cambiamo argomento: che rapporto aveva coi suoi figli?
Temevo per me, temevo per loro, io non ho fatto altro che temere. Si, ma li seguiva, gli stava vicino, o pensava solo ai fatti suoi? A una domanda così non so rispondere. Sicuramente non godendomi niente non mi godevo neppure i figli. L’importante, comunque, è non incombere sui propri figli. Io li guardavo, li guardavo mentre guardavano la televisione.
Lei non la guardava?
Più o meno come gli altri fino ai quaranta. Poi al massimo l’ho un po’ spiata. La stessa cosa accadeva coi libri. Da un certo punto ho smesso di leggerli, mi sono limitato a spiarli.
E i giornali?
I giornali sono una cosa fatta in fretta e mi erano graditi solo quando pubblicavano qualcosa di mio dandogli un certo risalto. Parliamo del suo rapporto con le persone?
Ero stupito dal fatto che le persone si facessero cercare da me più che cercarmi. Non capivo come facessero a non capire che io ero una cosa importante. Questo sempre intorno ai quaranta. Da un certo punto in poi le persone non le ho viste più come un’occasione per arrivare altrove. Mi sono rassegnato ad arrivarci da solo in quell’altrove. In fondo noi vogliamo implicare qualcuno nella nostra morte. Invece dobbiamo semplicemente convincerci che alla nostra morte dobbiamo arrivarci da soli.
Ma perché le persone non la capivano? Perché stavano al buio o dentro false luci.
E a lei cosa ti faceva luce?
M’illuminava il batticuore.
Vedo che non ha perso il vizio della poesia.
La poesia, ho scritto una volta, favorisce la crescita, non la salute. Uno non sa che dire e butta giù una frase come si butta una rete. Noi che facciamo i pescatori e invece siamo, fin dal primo istante, pesce già pescato.
Non abbiamo parlato delle guerre.
Le guerre del mio tempo, come gli amori, cominciavano assai prima di iniziare e finivano assai dopo la loro fine. Comunque erano guerre strane, senza un vero odio. In realtà erano guerre contro la noia.
Non capisco
Si faceva un gran parlare, sembrava sempre che il mondo fosse sul punto di spaccarsi e invece era solo in atto una lunga, inarrestabile corrosione di tutto e di tutti.
Ricchi e poveri?
Intorno ai quaranta la mia nazione era governata da un uomo molto ricco, un fakiro gassoso che si avvaleva della trasformazione della società in un enorme studio televisivo. Adesso nessuno ne parla, ma allora era sulla bocca di tutti.
E quelli che si opponevano al riccone com’erano?
Lo sapevo che mi avrebbe fatto questa domanda. Credo sia veramente indecente per un morto nominare certa gente. Sembravano fieramente contrapposti, ma in realtà volevano le stesse cose. Da un certo punto in poi, nella mia nazione e nel mondo era chiaro che tutti volevano le stesse cose. Solo che per tenersi in vita la politica ha bisogno di persone che danno e si danno l’illusione di scontrarsi, di avere opinioni diverse. A me con la depressione la politica andò via dalla testa, insieme alle donne e ai giornali. Mi svanirono dai neuroni anche i calunniosi del mio paese. Non uscivo più in piazza. Facevo di tutto per non farmi vedere in quei pochi giorni all’anno in cui c’era qualcuno in giro.
E cosa faceva?
Andavo in bicicletta, ma sempre più lentamente. Ogni tanto pensavo a Dio, alla morte, alla poesia, ma senza quel furore dei miei anni giovanili.
Allora parliamo di Dio. Secondo lei dio è in tutte le cose?
Non so se dio mi sia mai passato dentro.
Cosa significa intendersi di se stesso?
Posso dire cosa significava per gli altri. Gli altri traducono la competenza che uno ha di si sé come vanità, egoismo, narcisismo. Io invece ero semplicemente uno che spiava se se stesso, il proprio corpo, la propria vita. Una volta sono arrivato a vedere il mio io come si vede un ginocchio, un braccio.
E che impressione le ha fatto?
Niente, in fondo a noi stessi non c’è niente. Mi ha fatto la stessa impressione di quando si vede un ginocchio, un braccio. Te l’ho già detto, la vita allora non sapeva di niente. Le guerre, gli amori, i funerali, la resa e la lotta, tutto un po’ si somigliava e tutto somigliava un po’ al niente.
Quindi la vita era un po’ come la morte?
Dopo la morte non c’è il nulla né la vita eterna. Queste sono idee che ci siamo inventati per allontanarci dallo spettacolo della decomposizione, per farci l’idea che noi scompariamo o andiamo da un’altra parte e che i vermi e poi la cenere non ci riguardino. E invece la faccenda continua, anche in un solo atomo, magari in quell’elettrone che fa il giro sbagliato.
Torniamo ad argomenti più umani. Una volta si è definito paesologo.
In quanto poeta ero uno dei cinque milioni di poeti esistenti nella mia sciagurata nazione. Definendomi paesologo li ho lasciati tutti, me ne sono andato da un’altra parte e la poesia mi ha seguito, ha capito che non volevo lasciare lei, ma le mosche che ne assillavano lo sguardo, come mosche intorno agli occhi dei cavalli. Comunque la paesologia non è una trovata. I paesi se ne stavano andando e noi siamo pronti ad abitare le cose solo quando ci lasciano o quando le lasciamo. La cosa strana è che quando diventai paesologo il paese sparì dalle mie costole dove era sempre stato attaccato.
E allora perché è rimasto tutta la vita nel suo paese?
Perché non ho creduto abbastanza in quello che c’era altrove e non ho avuto la forza di muovermi. Forse mi sono anche illuso pensando che fosse vera una frase che lessi una volta. Diceva che l’opera d’arte è sempre il frutto di un avventuriero che rimane a casa.
Che rapporto aveva coi suoi genitori?
Il padre era l’impazienza, la madre era l’ansia. Avevo con loro lo stesso rapporto che avevo con quelle parti di me che non mi piacevano. Entrambi mancavano dell’organo per godersi la vita e di quell’organo mancavo anch’io.
Ma come, esiste un organo per godersi la vita?
Non pensi a una cosa come il pancreas, la tiroide. Ma quell’organo a volte può mancare, come manca un cromosoma.
Però ha l’organo per godersi la morte!
Diciamo che non mi lamento. Per esempio da vivo a un certo punto ho capito che i miei problemi nascevano in gran parte dal parlare, parlavo troppo, sempre più del necessario, parlavo a chi non aveva bisogno delle mie parole.
Si può dire che parlava tanto che ora non riesce a smettere?
Lo ha detto. Questo è l’inferno, non riuscire a smettere, stare in una prigione che non finisce mai di restringersi. La mia vita a un certo punto ha perso aria, non entrava più aria da nessuna parte, neppure un filo, somigliavo a mio padre quando gli venne il tumore al polmone. Più mi agitavo per cercare l’aria e più mi mancava.
Questo accadeva perché stava in un mondo senz’aria o perché ne consumava troppa o perché gli altri gliela rubavano?
Credo tutte e tre le cose insieme.
Com’era la vita senz’aria?
Scura, cianotica, insicura, ogni secondo disperava di raggiungere il successivo, niente di fluido, pacifico, armonico.
Però era una vita che la faceva scrivere!
Scrivere era una maniglia, stavo sempre con le mani sulla maniglia, ma dietro non c’era la porta, la casa.
E dove stava all’ora?
Non l’ho mai capito dove stavo, nonostante che ci pensassi continuamente. Forse ero fatto per vivere da morto, capita a qualcuno ogni tanto una cosa del genere.
Ne è sicuro?
No, ma è una cosa possibile.
E cosa le sembra impossibile adesso?
La verità l’ho vista subito, ma ci ho messo una vita per crederci: siamo tutti impegnati in un compito impossibile.


da Intervista a un morto di nome Arminio, in Circo dell'ipocondria
Edizioni Le Lettere

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